giovedì 4 agosto 2011

Scooterista ucciso dopo lite all'incrocio, il pensionato: «Non so darmi pace»

Vittorio Petronella: «Piango per quel padre,
chiedo perdono». Le lettere: «Non sei un mostro»

MILANO - «Ho passato la vita intera a rispettare le regole, mai un eccesso. E adesso guarda che doveva capitarmi...». Vittorio Petronella sospira e non sa nemmeno lui che cos'è quella sensazione che gli chiude lo stomaco. Vergogna, senso di colpa, rimorso. Tutto assieme a tormentarlo. «Ero già a pezzi per quello che è successo, si figuri da quando ho saputo che una bambina è rimasta senza papà... non so più darmi pace, non so pensare ad altro».
Eccolo qui, l'uomo «socialmente pericoloso», il pensionato-mostro che merita di rimanere in carcere anche se ha 71 anni ed è malato di cuore, quello che si ostina a «non ammettere le sue responsabilità». I magistrati dicono che dopo un battibecco per una mancata precedenza lunedì 25 luglio il ragionier Petronella, a Milano, ha inseguito e ucciso senza pietà Alessandro Mosele, motociclista di 35 anni e padre di una bimbetta di tre. Lui racconta una versione diversa. Dice di non essersi accorto di avergli fatto un torto, che quel giovanotto lo ha affiancato e insultato: «Complimenti, hai vinto la palma dello s... dell'anno», che ha dato un calcio alla sua Audi rompendo lo specchietto retrovisore, che a quel punto lui ha tirato giù il finestrino e che il motociclista gli ha sputato in faccia. «L'ho inseguito per avere un chiarimento, volevo il suo numero di targa perché mi sentivo offeso e umiliato per quel che aveva fatto. È caduto e io me lo sono trovato davanti, non ho potuto evitarlo. Non sono un mostro, è stata una fatalità». Quattro testimoni raccontano dell'inseguimento, dicono che è stato lui a investirlo facendolo cadere. Una donna dice di averlo visto passare sul corpo di Alessandro due volte. «Ma non è vero» giura lui ricostruendo la scena assieme ai suoi avvocati, Pier Paolo Pieragostini e Gian Luigi Tizzoni. «I miei ricordi sono molto confusi ma escludo di averlo investito due volte. La cosa che ho ben in mente è l'istinto di spostarmi da lì». Ha ingranato la marcia e ha parcheggiato venti metri più in là. «Tremavo come una foglia, mi tremavano le gambe, ho avuto la strana sensazione di sentirmi spettatore e non protagonista di quella scena. Era come se stessi guardando un altro uomo, da lontano». Ha chiamato sua moglie Nuccia: «È successo un guaio». «Dove sei?» «Non lo so». È rimasto fermo a lungo, quasi senza respirare. Era successo davvero o era un incubo? «Appena le gambe mi hanno retto sono tornato sul punto dell'incidente a piedi. Non trovavo e non trovo ancora adesso le parole per dire quello che ho provato e che provo. Non so perché ho perduto la testa e l'ho inseguito, è stato un attimo...».
Inforca gli occhiali e sfoglia le lettere che gli ha portato l'avvocato: sono amici, vicini di casa, ex compagni di lavoro, parenti che scrivono per dirgli «coraggio», «ti vogliamo bene», «noi lo sappiamo che non sei un mostro». Scrive una sua ex collega: «Il ragionier Petronella non si adirava mai, cercava di appianare le situazioni, era una persona retta, la sola per la quale abbiamo organizzato una festa d'addio quando lasciò l'azienda per motivi di salute». Era tanti anni fa, abbandonò il lavoro perché invalido dopo tre bypass al cuore. Amici di una vita si offrono come testimoni per raccontare della sua «pazienza e perizia nella guida», della sua «indole priva di intemperanza o irritazione». Una vicina di casa prova a elencare tutte le sue qualità e poi conclude: «Che si può dire di lui se non tutto il bene possibile?». Un altro vicino si dice pronto a giurarlo: «Non è un uomo che perde il controllo». Gli scrive perfino un amico di suo figlio: «Io lo conosco come persona mite e tranquilla, mai espresso impazienza e alterazione». Una, due, decine di lettere. Gli occhi del signor Vittorio planano su frasi che lo commuovono proprio quando pensava di aver ormai vinto le lacrime. «Ho incubi continui» confessa.
Nei suoi sogni agitati c'è la vittima, Alessandro, c'è Viola, la bambina che crescerà senza il padre. Ci sono i familiari di Alessandro. «Li capisco», dice Petronella, «ho un figlio anch'io e so che se dovessi perderlo sarebbe il dolore più grande». Oggi suo figlio Piercarlo, 40 anni, andrà a trovarlo per la prima volta. «Ti chiedo perdono per quello che è successo» gli dirà. Come ha già detto sua moglie Nuccia: «Chiedo perdono a te e a tutti per quello che state vivendo a causa mia». Lei gli ha detto «Non leggere i giornali, non guardare la televisione. Dicono cose orribili di te». «Qualunque cosa dicano - ha risposto lui - non sarà niente rispetto a quel che scrive il giudice...».
Petronella ha imparato a memoria ogni passaggio dell'ordinanza. «Non sono io la persona descritta qui dentro» ripete. «Non riesco proprio a riconoscere me stesso nei giudizi scritti in queste pagine». E ogni tanto prova a non pensare a quell'argomento, legge i libri d'arte che gli ha portato sua moglie: pittura soprattutto, una sua grande passione. Compila le richieste per l'amministrazione del carcere: dentifricio, sapone, stracci per pulire la cella. «Per favore, potresti lavare tu le lenzuola al mio compagno di cella imam?» ha chiesto ieri a quella donna sposata 41 anni fa. Ecco, l'anniversario di matrimonio: non sarà mai più una giornata da festeggiare. Era proprio lunedì, il giorno dell'incidente. C'era in programma una cenetta a casa, lui e Nuccia. «E invece da quel giorno maledetto fatico a dare un senso alla mia vita».
Il tormento più grande? «Tutto. La vita stroncata di quell'uomo, quella creatura senza padre, la loro e la mia famiglia... tutto».

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